Un ricordo che resiste ventotto anni dopo
Ventotto anni fa, in una notte d’agosto, un’auto sfrecciava nel tunnel dell’Alma, a Parigi. Una corsa disperata, inseguita da obiettivi fotografici che non concedevano tregua. Poi il boato, il ferro contorto, il silenzio. Così moriva Diana Spencer, la principessa che non si era mai rassegnata a vivere come una figurina incollata negli album della monarchia inglese.
Un’infanzia fragile, una donna segnata
Diana non nacque regina, e forse fu proprio questo a renderla diversa. Era la figlia più piccola di una famiglia aristocratica divisa dai litigi e da un divorzio amaro. Da bambina vedeva la madre andarsene di casa, lasciando dietro di sé il vuoto e il pianto. Quelle ferite restarono in lei: la sensazione costante di non essere mai abbastanza amata.
Non eccelleva negli studi, inciampava più di quanto brillasse. Ma aveva una qualità che non si impara: sapeva guardare gli altri con occhi sinceri, senza difese. Fu quella vulnerabilità a farla notare, a renderla irresistibile agli occhi di chi cercava una sposa per l’erede al trono d’Inghilterra.

Lady Diana Spencer ph wp
La favola che si fece prigione
Quando sposò Carlo d’Inghilterra, nel 1981, il mondo credette alla favola: il matrimonio del secolo, la sposa in bianco con un abito lungo sette metri, gli applausi, le lacrime. Ma dietro i sorrisi, c’era già la frattura. Accanto a Carlo, un’ombra più antica e ostinata: Camilla Parker Bowles, l’amore che il principe non aveva mai lasciato.
La monarchia voleva Diana docile, elegante, silenziosa. Lei invece scoprì presto che il silenzio le pesava come una catena. Nei corridoi di Buckingham Palace, fra i rituali e le etichette, si sentiva soffocare. Cercò aria altrove: nell’impegno con i malati di AIDS, tra i bambini delle missioni umanitarie, negli abbracci agli ultimi. Lì non era principessa: era semplicemente Diana.
La confessione pubblica e lo scandalo
La sua vita privata divenne un campo di battaglia. Tradimenti, solitudine, bulimia, depressione: Diana non si nascose. Nel 1995, davanti alle telecamere della BBC, confessò tutto: «In questo matrimonio eravamo in tre». Una frase che fece tremare i muri di Windsor, spogliando la monarchia della sua sacralità. Per la prima volta, il popolo vedeva la corona come un teatro pieno di attori stanchi e poco credibili.
Una madre prima di tutto
Se c’era un ruolo che non smise mai di interpretare con devozione, fu quello di madre. Con William e Harry non volle protocolli: portava i figli nei parchi, nei fast food, sulle giostre. Li prendeva per mano senza guanti, li baciava davanti alle telecamere. Voleva che conoscessero il mondo reale, quello che i Windsor tenevano a distanza. In questo, Diana restò incrollabile: sapeva che la vera eredità non erano i gioielli, ma la libertà di scegliere chi essere.
L’ultima notte e l’eredità
Il 31 agosto 1997, quella fuga con Dodi Al-Fayed, le moto dei paparazzi alle calcagna, l’impatto fatale. Con lei, in quel tunnel, non morì solo una principessa. Morì un’epoca: l’illusione che la favola potesse durare in eterno. Ma nacque anche un mito, quello della “principessa del popolo”, che non smette di parlare al cuore di chi la ricorda.
Oggi, a ventotto anni di distanza, resta il paradosso: una donna fragile, piena di ferite, capace però di smuovere più coscienze di quanto abbiano fatto secoli di monarchia. Diana fu il grido che attraversò i muri dorati di Buckingham: si può essere soli anche in mezzo al lusso, ma si può essere liberi anche senza corona.