Quando il vento si alza e la montagna scompare nella nebbia bianca, l’alpinista diventa un punto minuscolo nel cuore di una tempesta che non conosce pietà. Reinhold Messner, che di bufere ne ha viste e superate più di chiunque altro, lo sa bene. Sulla base di quanto accaduto in Nepal ha rilasciato alcune dichiarazioni illuminanti: “Sono molto triste per questo fatto e penso ai genitori, ai vicini, ai figli. Che cosa è successo? Non lo so, probabilmente una valanga”.
“Smarrirsi, cadere, restare sepolti dalla neve: in alta quota basta poco per perdere tutto”, ha raccontato, la voce calma ma ancora attraversata da un’eco di quelle paure che non si dimenticano. “Non voglio fare nessuna accusa, un turista può andare in un’agenzia di viaggio e comprare una specie di ticket e ha così la possibilità di andare con un gruppo, in questo caso misto. Bisogna sapere che la montagna è infinitamente più grande di noi. È veramente affascinante. La montagna è il maestro più forte che abbiamo, però è un maestro molto severo”.

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Il limite della resistenza umana
Messner, oggi 80 anni, parla con la lucidità di chi ha imparato sulla propria pelle che la montagna non perdona. “Il limite di resistenza umana in condizioni estreme è di 40, massimo 50 ore. Dopo quel punto, il corpo comincia a cedere, la mente non risponde più, e anche i gesti più semplici diventano impossibili.”
Non è teoria: è esperienza diretta. L’alpinista altoatesino ricorda una delle situazioni più drammatiche della sua carriera. “Una volta abbiamo passato due giorni sotto al temporale a quota ottomila. Non c’era modo di scendere, la neve copriva le tracce, il vento urlava. Abbiamo scavato un piccolo riparo nella neve e aspettato. In quei momenti non pensi più alla vetta, pensi solo a sopravvivere.”
Un silenzio carico di rispetto accompagna sempre i suoi racconti. Chi lo ascolta capisce che non si tratta di avventura, ma di qualcosa di più profondo: una lotta contro i propri limiti.
La montagna come maestra di umiltà
Messner descrive il whiteout, quella condizione in cui tutto scompare, in cui cielo e terra diventano un’unica massa bianca. “Una volta ho pensato di morire così. Non vedevo più nulla, neppure i miei scarponi. È come se il mondo intero si dissolvesse. In quei momenti capisci che l’orientamento non serve: devi solo mantenere la calma e sperare che la bufera passi.”
La montagna, spiega Messner, insegna la fragilità. “Oggi, con la tecnologia, molti credono di poter controllare tutto. Ma lassù, tra i ghiacci e il vento, non comandi tu. È la natura che decide.”
Anche per questo, secondo lui, la montagna resta una maestra di umiltà. “Ogni volta che torno indietro vivo, mi sento un uomo più consapevole. Non perché ho vinto qualcosa, ma perché ho capito quanto poco basta per perderlo.”
Nel suo racconto, tra la memoria e la filosofia, la bufera diventa metafora dell’esistenza stessa: si affronta con coraggio, ma senza sfidarla con arroganza.
L’insegnamento finale
“La differenza tra chi torna e chi resta lassù,” conclude Messner, “è saper riconoscere quando è il momento di fermarsi. La montagna non uccide: siamo noi, a volte, a non saper ascoltare i suoi segnali.”
Un insegnamento che pesa come la neve nelle notti d’alta quota e che, dopo i fatti accaduti in Nepal dove hanno perso la vita diversi alpinisti, fa di Reinhold Messner un testimone autentico del confine più sottile: quello tra la vita e la montagna.
A cura di Dario Lessa