Un rifugio lontano dal caos
In Corea del Sud, un paese dove la competizione professionale e sociale raggiunge livelli estremi, sempre più persone cercano un modo drastico per sfuggire alla pressione quotidiana. La soluzione? Chiudersi volontariamente in una finta prigione per un’intera settimana, lontani dal rumore, dalle notifiche e dalle aspettative della società.
Vita in cella, ma per scelta
Queste strutture, ispirate alle vere carceri, offrono stanze spartane, letti essenziali, cibo frugale e regole severe. I partecipanti consegnano i telefoni, abbandonano ogni contatto con l’esterno e si immergono in un isolamento totale. Niente social network, niente email, solo il silenzio e la possibilità di riconnettersi con se stessi.
Un fenomeno in crescita

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Dal 2018, sempre più persone scelgono questa esperienza. Molti raccontano di uscirne più lucidi, sereni e rigenerati. Alcuni la vivono come una forma estrema di meditazione, altri come un’occasione per resettare la mente e allontanarsi da un mondo troppo frenetico.
Un sintomo della società moderna
Questo trend solleva interrogativi profondi. Perché è necessario simulare una prigione per sentirsi liberi? La risposta sta nella cultura sudcoreana, dove il superlavoro e la pressione sociale generano stress, ansia e burnout.
Un’esperienza per tutti?
Non tutti sono convinti dell’efficacia di questa soluzione. Alcuni esperti mettono in guardia sui rischi dell’isolamento estremo e sottolineano la necessità di un miglior equilibrio tra vita privata e lavorativa. Rinchiudersi in una cella può servire, ma il vero cambiamento deve avvenire nella società.
Il futuro della disconnessione
Mentre questa tendenza cresce in Corea del Sud, il mondo osserva con curiosità. Potrebbe diventare un modello esportabile? Forse, ma una cosa è certa: sempre più persone cercano un modo per sfuggire alla prigione invisibile delle proprie responsabilità quotidiane. E, paradossalmente, lo fanno entrando volontariamente in una cella.